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Dall’adolescenza all’adultità | |
Dall’adolescenza all’adultità
Quello che chiamiamo“comportamento puerile” è un riflesso dell’adeguatezza della socializzazione, e non si deve assolutamente considerare l’espressione degli impulsi naturali del bambino.
Se mi venisse chiesto di spiegare, in poche parole, quale potrebbe essere il senso di un contributo dell’antropologia allo studio dell’adultità, probabilmente non troverei modo migliore per rispondere del fare mia la considerazione di J.D. Ingleby a proposito dell’infanzia: “ La lezione dell’antropologia ( ..) è che sono possibili molto varietà di sviluppo- e persino la stessa nozione di infanzia- sono del tutto specifiche della nostra cultura” (ingleby 1986, p.301). Anche la nozione di adultità è infatti specifica della nostra cultura. Con questo non intendo affermare – né lo intendeva in realtà Ingleby- che i concetti di infanzia e di adultità, e soprattutto quello di sviluppo, non siano presenti in altre culture; sarebbe certamente un’esagerazione che chiunque potrebbe facilmente smentire. Nella maggior parte delle culture studiate dagli antropologi, le cosiddette culture” primitive”, si rileva tuttavia una fondamentale differenza rispetto alla cultura occidentale che merita la nostra attenzione. Noi siamo abituati a pensare all’adultità come un periodo separato della vita dell’individuo, quello nel quale soltanto egli è soggetto sociale a pieno titolo. In altri termini, il corso della vita viene concepito come suddiviso in tre principali stadi- infanzia- adultità- vecchiaia- che, a ben guardare, non costituiscono un continum L’infante e l’adolescente non sono ancora, il vecchio non è più, solo l’adulto è. Questo può essere spiegato, sia pure semplificando il discorso, in virtù del fatto che solo l’adulto è pienamente inserito nel processo produttivo, ed è appunto la collocazione rispetto a esso che permette di classificare i membri del gruppo. Per la stessa ragione la condizione del bambino risulta oggettivamente meno “ disperata” di quella dell’anziano, poiché egli sarà un domani adulto e quindi la società può e deve investire su di lui, mentre l’anziano ne ha perduto irrimediabilmente lo status ed è quindi percepito soltanto come un elemento parassitario. Queste brevi considerazioni sono già in sé sufficienti a farci capire come, per noi, il corso della vita sia caratterizzato da una sostanziale discontinuità, e come il suo svolgersi sia ritmato da una serie di passaggi . E’ opportuno tuttavia ampliare le nostre argomentazioni, allo scopo soprattutto di evitare la diffusa convinzione che ciò rifletta una realtà oggettiva, “ naturale”, mettendone invece in evidenza la matrice essenziale “ culturale”
Il famoso studio di Arnold Van Gennep sui riti di passaggio ( 1909) muove dal presupposto che l’individuo è sempre situato in sezioni diverse della società , talvolta in maniera sincronica ma più spesso in una successione temporale, l’antropologo francese infatti enfatizza i passaggi dell’individuo non solo nel corso della sua vita ma anche prima e dopo di essa, individuando nei riti che li sanciscono delle “ costanti della vita sociale” . In definitiva, egli conclude, la vita stessa di ogni individuo significa in continuo succedersi di disaggregazioni e riaggregazioni, di trasformazioni di forma e di condizione, di morti, di rinascite: vivere, in altri termini, vuol dire” agire, cessare, attendere e fermarsi e quindi ricominciare ad agire, ma in una forma diversa. E vi sono sempre nuove soglie da varcare ( ..) la soglia della nascita, dell’adolescenza della maturità e della vecchiaia ( corsivo mio)
Sarebbe certamente azzardato mettere in discussione il saggio di Van Gennep, che a dispetto dei suoi anni rimane uno degli studi più profondi sul fenomeno dell’iniziazione; tuttavia non posso esimermi dal sollevare un quesito circa l’effettiva correttezza dell’interpretazione che viene data- tanto da lui quanto da tutti “ noi” - del concetto di “ passaggio”. Questo infatti viene inteso come una “ rottura”; si potrebbe anzi dire che esso rappresenti una sorta di mutazione dell’individuo il quale, dopo il rito, appare come totalmente “ altro” rispetto a ciò che era prima. Ora, se è fuori il dubbio che in tutte le società umane si ritrovano eventi rituali che scandiscono il corso della vita sia degli individui sia dei gruppi , non è altrettanto scontato che quegli eventi possano sempre essere spiegati in quei termini. Quando noi spieghiamo un rito di iniziazione come il succedersi di una morte e di una rinascita compiamo in realtà un’operazione che è inconsapevolmente arbitraria, per due ragioni: in primo luogo estendiamo a qualsiasi tipo di iniziazione il significato dell’iniziazione religiosa, in cui la transizione da uno stato ad un altro è effettivamente un fatto totale , in quanto implica il passaggio da una dimensione profana a una dimensione sacra . In altri termini, “ gli stati” a cui si fa riferimento concernono la relazione degli individui e dei gruppi con il sacro, e le relazioni reciproche fra essi in rapporto al sacro; tuttavia nel corso della vita si verificano eventi, si danno situazioni, che pur implicando delle trasformazioni nelle condizioni precedenti, non riguardano direttamente la sfera del sacro. Secondo Van gennep anche in queste occasioni l’azione rituale ha una valenza magico- religiosa, in quanto nessun cambiamento è esente dal provocare perturbazioni della vita sociale, ed è funzione appunto del rito esorcizzare tali perturbazioni: posto che sono costante antropologica “ le idee circa le divisioni e le categorie della società, il rituale, regolando la relazione di eventi individuali con quelle divisioni fondamentali , conserva l’ordine sociale, assegnando agli individui, la loro posizione in seno a esso. ( …) Il trasferimento rituale degli individui attraverso ( i confini) è il mezzo atto a rendere manifesti quei confini e a riaffermare il significato” ( la Fontane 1985, p.27). Ora, diversi antropologi hanno lamentato l’eccessiva generalizzazione compiuta da Van Gennep, cercando invece di distinguere fra tipi diversi di riti di passaggio e, soprattutto, considerando la ritualizzazione delle varie fasi della vita di un individuo un caso del tutto particolare di “ riti” di passaggio” tanto che Max Gluckman ha proposto di riservare il termine di “ iniziazione” ai “ rituali di adolescenza” ( Glukman 1962). Tuttavia dal nostro punto di vista, ciò complicherebbe ulteriormente la questione anziché semplificarla , dal momento che se è vero che tutte le società possiedono rituali relativi alla nascita e alla morte, i riti che accompagnano i diversi stadi della vita dell’individuo sono eterogeneamente distribuiti e in taluni casi mancano addirittura , il che rende ardua una comparazione una successiva teorizzazione generale. In secondo luogo è necessario “ relativizzare” l’affermazione secondo la quale il rito di iniziazione o di passaggio esprime simbolicamente una morte e una rinascita. Se infatti non sarebbe certamente corretto negare quel significato simbolico del rito, sarebbe mistificante riferirlo alla particolare concezione della nascita e della morte specifica della “ nostra” cultura. Per noi la nascita e la morte sono due eventi fondamentali della vita dell’individuo, appunto perché ne segnano rispettivamente l’inizio e la fine: essi costituiscono cioè i due punti cardinali che delimitano il “ corso della vita”, nel senso che prima della nascita l’individuo non è ancora , dopo la morte egli non è più. Né la radicalità di tale concezione è ottenuta dalla fede religiosa in una “ vita ultra terrena” che seguirebbe alla morte fisica dell’individuo, in quanto la morte costituisce una fine, una rottura della continuità esistenziale dell’individuo il quale perde ogni sua qualità umana nel passaggio alla “ vita eterna” ( situandosi questa su di un piano ontologico del tutto diverso rispetto alla vita terrena). Ma l’aspetto per noi più rilevante è dato dal fatto che la nascita e la morte , proprio perché rispettivamente “ inizio” e “ fine” sono viste come contrapposte, in un certo senso negazione l’una dell’altra. Se invece rivolgiamo l’attenzione alla concezione della nascita e della morte presso culture diverse, possiamo individuare alcuni elementi assai diffusi che rilevano un atteggiamento radicalmente diverso dal nostro. Il primo elemento sul quale desidero porre l’accento è dato dall’ultimo legame esistente fra nascita e morte, e che trovo sia mirabilmente espresso da un detto ashanti che recita: una nascita in questo mondo è una morte nel mondo degli spiriti. In altri ermini vi è una stretta connessione, anzi una continuità fra nascita e morte, sebbene sia probabilemte azzardata, perché eccessivamente generalizzante o comunque semplicista. L’affermazione di Edgar Morin, secondo il quale “ la morte- rinascita è espresso dal conferimento al neonato del nome del defunto, non tanto a significare che lo stesso individuo “ ritorna” a vivere e e a far parte del gruppo, quanto piuttosto a sottolineare la continuità del gruppo stesso, il cui equilibrio interno è ciò che prima di tutto deve essere ristabilito, esorcizzando il rischio di disordine determinato dalla morte di un suo membro. In definitiva, come appunto osserva Morin, ogni morte richiama una nascita, e inversamente ogni nascita richiama una morte: il richiamo avviene cioè nei due sensi, morte e nascita e nascita e morte, in una visione ciclica dell’esistenza umana. Da questa prospettiva il rito di passaggio non fa altro che riaffermare, rappresentandola simbolicamente, la continuità sostanziale dell’intero del corso della vita.
Al contrario potremmo dire che nella nostra cultura predomina una visione “ chiusa” della vita, o piuttosto delle varie fasi in cui convenzionalmente ne suddividiamo il corso. Può darsi che ciò derivi anche dalla grande trasformazione sociale ed economica conseguente al processo di industrializzazione, come è stato suggerito da alcuni studiosi: secondo l Hoffman e J manis, ad esempio, mentre i bambini hanno un intrinseco valore economico nelle società rurali, sia perché vengono precocemente integrati nel modo di produzione sia perché sono visti come i garantiti dall’assistenza futura agli anziani , e sono di conseguenza valutati in funzione di ciò, in un paese industrializzante avanzato nel quale esista un sistema previdenziale statale “ è meno probabile che i bambini abbiano una utilità economica” ( cfr. Hoffman Monis 1979) La conseguenza più grave determinata da quella trasformazione del modo di considerare il bambino ( ma potremmo dire, in una forma più generalizzata, l’individuo e il suo sviluppo), è stata evidenziata da Margeret Mead attraverso una comparazione delle condizioni dell’adolescenza presso la società cosiddetta “ semplice” di Samoa con quelle degli adolescenti americani ( cfr mead 1928); dal confronto Mead concludeva che “ l’adolescenza non è necessariamente un periodo specialmente difficile della vita”, e si chiedeva quindi a che cosa, fosse dovuta “ l’inquitetudine e tutta la tensione” degli adolescenti americani. Considerando che il processo biologico della crescita è il medesimo, la spiegazione delle differenze non poteva essere trovata che nella diversità dell’ambiente sociale. Non è certamente questa la sede in cui bisogna entrare nei particolari delle argomentazioni di Mead; basterà osservare che, dal punto di vista che qui ci interessa, tutte ci conducono implicitamente alla conclusione che l’adolescenza in definitiva non sia altro che una costrizione sociale- e lo stesso vale per l’adultità. . E’ quindi inevitabile dedurre che anche le relazioni fra adolescenza e adultità sono culturalmente e socialmente “ determinate”. E’ inutile, a questo riguardo, ricordare che anche gli psicologi dell’infanzia ormai lo riconoscono, come dimostrano le parole di William Kessen, per i quale il bambino è appunto un’ invenzione culturale “ “ una creazione epigenetica e continua dei contesti sociale e biologico ( Kessen 1991) Non solo: gli stessi bisogni del bambino ( ma una volta ancora potremmo estendere il discorso a ogni individuo, qualunque sia la sua “ età”) al cui rilevamento preventivo oggi tanto si fa riferimento come condizione indispensabile a qualsiasi programmazione di interventi, non sono fatti “ naturali” bensì costrizioni sociali. E’ infatti evidente che ogni affermazione circa i bisogni ( del bambino come l’anziano, dell’immigrato come la donna, e così via), contengono in un elemento valutativo, un giudizio su ciò che è bene per i soggetti interessati, e su come esso possa essere raggiunto. Tratto dalla Rvisita “Adultità” diretta da Duccio Demetrio per Guerrini e Assoociati Editore Paolo Chiozzi |
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